"Ci ho pensato, Anita. E forse hai ragione tu.
C'è qualcosa che devi sapere.
Ma ti avverto: dopo che avrai dato un'occhiata
a quello che c'è qui dentro,
niente ti sembrerà più come prima.
Nemmeno io. Nemmeno questa casa."
Esce OGGI - finalmente - in tutte le librerie il nuovo romanzo della talentuosa Silvia Montemurro che mi ha stregato fin dalla prima volta in cui ho incontrato la sua scrittura potente ed evocativa che mi è arrivata dritta al cuore e che non mi ha mai delusa, libro dopo libro. Con La casa delle farfalle arriviamo al sesto e, come potrete constatare leggendolo voi stessi, Silvia ha raggiunto una maturità e una consapevolezza che fanno dello scrivere il suo vero ambiente naturale: il suo "farfallario", in cui lascia crescere e volare libere idee da mille colori e sfumature per farle posare leggiadre ed incantevoli su di noi. E lasciare un segno.
E' proprio per questo che ho scelto di parlarvi, in questa mia tappa, proprio della famiglia e della memoria: due elementi assolutamente centrali nel romanzo di Silvia.
Quando Anita se ne andò, Maria chiuse delicatamente la porta
e trasse un respiro di sollievo.
Per un attimo aveva temuto di non farcela.
Sapeva di non essere brava a dire bugie
e con il passare degli anni era peggiorata anche in questo.
Sbirciò fuori dalla finestra e si accorse che Anita
era ancora ferma sulla soglia, con la fotografia in mano.
Quando aveva visto la foto di quella ragazzina,
abbracciata a Lucrezia, il suo anziano cuore
aveva mancato un battito.
Non aveva idea del perché Anita avesse tirato fuori quella storia
ma la cosa la turbava. In un attimo rivide tutte le lacrime
versate da Lucrezia e rabbrividì.
Stava per succedere qualcosa.
Quella maledetta casa si stava risvegliando.
Si torse le mani e per un attimo fu tentata di avvisare Margherita.
Forse poteva fare qualcosa per convincere
la figlia a non fare domande su quella fotografia.
Certe vecchie storie potevano portare solo nuovi guai.
Lucrezia, Margherita, Anita: nell'ordine nonna, figlia e nipote.
Maria, Yu Kari, Cho.
Tutte donne che in comune non hanno solo il sangue (scoprirete solo leggendo come il sangue non sia l'unico modo per essere parte della stessa famiglia) ma anche grandi sofferenze. Sofferenze provocate dagli eventi storici, dai fatti della vita, da decisioni obbligate e non volute che in un modo o nell'altro hanno influito come un domino sulle vite di tutte loro. Ma quello che Silvia ci racconta non è uno strappo generazionale bensì un lento rammendo di quello strappo (anzi, dei tanti strappi che si erano venuti a creare) proprio grazie al recupero della memoria. Una memoria racchiusa tra le mura di una casa, la Casa delle Farfalle, che negli anni era stata la vera testimone dei tanti avvenimenti che pian piano si ricostruiscono sotto i nostri occhi in un arco di tempo che va dal 1943 ai giorni nostri.
Nel romanzo si sviluppa infatti non solo la ricostruzione di una memoria personale dei vari personaggi ma anche una vera e propria memoria storica dato che i fatti salienti, quelli che hanno dato vita a tutti gli altri che sono succeduti in n rapporto di causa-effetto, sono accaduti durante il periodo della guerra, quando l'Italia era in mano ai tedeschi che si sentivano i padroni e si permettevano di entrarti in casa, stabilire il loro accampamento appropriandosi di ogni cosa e tu dovevi solo ringraziare di essere lasciato in vita.
Come è successo alla famiglia di Lucrezia.
Quando era solo una ragazza di vent'anni aveva dovuto lasciare l'insegnamento e tornare ad Ossuccio, il suo paese, alla Villa delle Farfalle. Ora che il nord d'Italia era in mano ai tedeschi tutta la sua famiglia aveva dovuto riorganizzarsi. Suo fratello più piccolo, Alfonso, si era arruolato volontario ed era partito per Salò. Il più grande, Martino, era tornato dalla guerra in Grecia ferito nel corpo e nell'anima. Ma una volta rientrata alla Villa delle Farfalle constatò che niente sarebbe stato come prima. L'ingresso che una volta strappava esclamazioni ai visitatori per la luce che ad ogni ora del giorno entrava dalle ampie finestre era stato adibito ad ufficio ed era sempre pattugliato dai soldati. C'erano sacchi in ogni angolo e i mobili non erano più al loro posto.
Lucrezia, con i suoi vent'anni, aveva capito poco di quello che stava succedendo. Ma di una cosa era certa: era tutta colpa dell'ufficiale tedesco Will Brusseler.
Brusseler era arrivato dieci giorni prima con una delegazione di sottufficiali e soldati semplici e aveva fatto irruzione in casa loro, senza neanche una parola di scuse. (Non che fosse facile comunicare con lui, visto che parlava l'italiano poco e male) ma era ben chiaro che la Villa sarebbe stata adibita a quartier generale e che loro, per grazia concessa dall'ufficiale, potevano continuare ad abitare lì.
Leggere questa cosa - raccontata da Silvia con dovizia di particolari - mi ha davvero molto colpita perchè negli stessi anni anche se in un luogo differente perché invece di Ossuccio vicino al lago di Como ci troviamo ad Orvieto, non lontano dal lago di Bolsena.
Nello stesso modo i tedeschi arrivarono nella villa di famiglia che si trovava su una bella collina e in una posizione per loro strategica e se ne impossessarono. Ufficiali, sottufficiali, soldati semplici... proprio come raccontato da Silvia. Un assedio durato più di due anni ma che, nonostante tutti i risvolti negativi che potete immaginare - primo fra tutti la perdita della libertà e della proprietà, nonché la paura costante - per certi aspetti è stato anche una "benedizione". Chi aveva gli ufficiali tedeschi in casa, in una situazione come questa, aveva dei vantaggi che altri non avevano: come l'approvvigionamento di cibo. Mio padre aveva cinque anni e mia zia otto quando assaggiarono per la prima volta la cioccolata. Dai loro racconti, io stessa ero una bambina quando talvolta ne parlavano, rimanevo sempre affascinata... naturalmente perché essendo piccola ed ignara di quello che una cosa come la guerra potesse comportare vedevo solo l'aspetto "avventuroso" e "surreale" che una cosa come la cioccolata, con cui io e mio fratello facevamo abitualmente merenda, fosse una cosa tanto speciale e straordinaria. Ovviamente non furono tutte rose e fiori e tante cose riesco a ricostruirle e comprenderle solo ora che sono adulta, anche se non so che darei per aver avuto la possibilità di registrare le loro parole per avere un qualcosa di più realistico e dettagliato e non solo un collage di frammenti di memoria. Ma comprendo bene la paura di avere il nemico in casa e fingere di nn essere un partigiano.... Ricordo le imitazioni in finto tedesco delle telefonate degli ufficiali che la mia famiglia udiva dall'altra stanza cercando di interpretare i toni e non temere per il peggio, che poteva verificarsi sempre da un momento all'altro. Ricordo l'asma di mia nonna, che la uccise in tarda età ma che contrasse per dormire nascosta nel fienile, quando per un periodo è stata buttata fuori dalla sua stessa casa.... Tante cose, tanti ricordi che sono riaffiorati grazie al libro di Silvia che mi hanno fatto sentire un po' più vicina alla mia famiglia e così fiera di loro, del loro coraggio... del loro spirito di sacrificio... della loro forza e del loro vivere che mi hanno trasmesso facendomi vivere un'infanzia e una vita serena come se l'inferno che hanno vissuto sulla loro pelle fosse una di quelle storie che si leggono solo sui libri.
Anche Silvia nel suo romanzo ci parla di adattamento e resistenza. Lotta e sopravvivenza.
Mi rendo conto che sta venendo fuori un post lunghissimo ma è inevitabile dato che la tematica è molto ampia e complessa; quando sul piatto della bilancia ci sono valori come la famiglia, la patria, gli ideali politici, la fedeltà alla bandiera o il tradimento. La figura di Lucrezia incarna alla perfezione questa complessità e Silvia è stata bravissima a racchiudere in lei questa dicotomia tra amore per la propria patria e i propri fratelli e "sorelle partigiane" ma anche amore per il nemico dato che si innamorerà proprio di Will. Will che contemporaneamente incarna tutta un'altra serie di valori ed ideali ed è la dimostrazione che c'erano anche dei tedeschi "buoni".
Direi che a questo punto dovete assolutamente leggere il romanzo e farvi trasportare dalle sue ali di farfalla in questo viaggio nel tempo e nell'animo umano di tre donne straordinariamente fragili ma al contempo forti; donne interrotte che avranno la possibilità di tornare "intere" solo prendendo coscienza del proprio passato, del loro essere famiglia e della loro memoria.
Spero davvero di avervi incuriositi ma se ancora non bastasse vi invito a passare domani sul blog Devilishly Stilish di Elisa Impiduglia per un approfondimento sul Giappone e la leggenda legata indissolubilmente al romanzo e che ne fa un po' da fil rouge.
Se invece volete sapere tutto, ma proprio tutto, sulle farfalle di questo libro e ancora non lo avete fatto dovete volare sul blog di Dalila Spieziga Diario di un sogno.
Il libro
editore: Rizzoli
genere: narrativa
pagine: 390
prezzo: 18.50
Brossura
eBook: 9.99 euro
Trama
Anita ha trent'anni e insegna biologia all'Università di Colonia. Non ama gli aerei e soffre di vertigini, ma non saprebbe spiegarne il motivo. Quando la sua vita viene sconvolta da un tragico evento, in crisi lascia Hans, il suo compagno, per tornare nei luoghi dov'è cresciuta - in treno naturalmente. Lì, sul lago di Como, è decisa a ritrovare se stessa. Mentre passeggia cullata dallo sciabordio delle onde, incontra una bambina dai tratti giapponesi e dalla voce meravigliosa. Si chiama Yoko e, proprio come lei, è segnata da una ferita difficile da rimarginare. Presto Anita, leggendo il diario della nonna Lucrezia, scoprirà di essere legata a Yoko da una storia rimasta sepolta per anni, che unisce le loro famiglie. Tutto ha origine nel 1943, quando la casa di Lucrezia, la villa delle Farfalle, viene occupata da alcuni ufficiali tedeschi. Tra lei e Will, uno degli ufficiali, nasce un sentimento dirompente, ma la guerra sembra ostacolarli...
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